Il colore dominante della copertina è un arancione bello e denso. Afferro il libro, lo giro, e sul piatto posteriore leggo il commento che il New York Times ha fatto sulla raccolta di racconti di Etgar Keret “Un intoppo ai limiti della galassia” (Feltrinelli) che mi appresto a leggere: “come se Kafka fosse israeliano e scrivesse di pesci parlanti“. Mi sembra che questo commento sia esagerato. Ciononostante, vale la pena leggere questa ventina di racconti? Certo che sì! Lo stile di Keret è unico nel panorama letterario israeliano: fuori dagli schemi, ironico, caustico. Pagina dopo pagina si entra nel suo mondo allucinato, che ha la funzione di mettere in luce le assurdità della vita reale, dei rapporti umani e dei grandi problemi dell’esistenza.
“Un intoppo ai confini della galassia” è stata la mia lettura da treno per circa due settimane. Con Keret ho riso parecchio durante gli interminabili spostamenti da pendolare. Su due piedi, non saprei scegliere il racconto più bello. Sicuramente uno dei più spassosi è quello dal titolo “Crumb cake”, in cui il protagonista è un uomo obeso di cinquant’anni che festeggia in un ristorante di serie B insieme alla sua anziana madre. Keret fa ironia su quegli uomini che non vogliono allontanarsi dalla loro comfort zone, scegliendo l’annullamento e rinunciando a vivere le gioie e anche i dolori della vita. L’esistenza fa paura, una paura così grande che alcuni esseri umani optano per una comodità autodistruttiva, lenta e inesorabile. Scriverlo con il sorriso e una battuta dietro l’altra rende questo scenario ancora più tetro e inquietante.
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