L’uomo che guardava passare i treni di Georges Simenon

di Niccolò Menichinelli

Assoluto capolavoro di Georges Simenon, L’uomo che guardava passare i treni (Adelphi) può indurre il lettore nell’illusione di trovarsi davanti a un giallo. Non me ne vogliano gli autori di libri così categorizzati, ma l’opera di Simenon trascende parzialmente da questa etichetta, spaziando invece all’interno dell’insieme dei romanzi a carattere psicologico, sui quali è possibile spendersi in modo più approfondito e introspettivo. Non sono ovviamente trascurabili, lungo lo svolgersi della trama, i dettagli che ci riportano quindi alla presenza del genere poliziesco: un assassinio, un omicida, un poliziotto determinato a dargli la caccia e una serie di espedienti che il fuggiasco adotta per scampare all’arresto. Ciò che Simenon vuole però comunicare non è dinamismo e sprezzo del pericolo, come i gialli di solito si impegnano a fare, ma una visione più completa ed esaustiva delle sfaccettature dell’umano agire, prendendo come esempio un soggetto particolarmente disturbato.

Per indagare questo aspetto è necessario quindi calarsi intimamente nell’interiorità di Kees Popinga, il protagonista, al fine di esplicitare i principali temi del romanzo. Popinga potrebbe essere assurto a emblema della piccola borghesia nederlandese del primo Novecento: moglie e figli, villetta agiata, lavoro redditizio e passione per gli scacchi. L’equilibrio della sua vita viene rotto dal rocambolesco annuncio, in prima persona, del finto suicidio del suo principale, evento che farà emergere i problemi economici dell’azienda navale di cui Popinga è dipendente. Questo è il momento che l’autore sceglie come punto di rottura con il passato: a Kees vengono meno le certezze e decide, in preda a un impeto di negazione, di gettare all’acqua di rose le strutture preconfezionate vita e dedicarsi ad altro.

Fin qui può sembrare addirittura una storia di riscatto ma, conoscendo gli ulteriori sviluppi delle vicende, è semplice intuire fra le righe una critica dell’autore alla borghesia del suo tempo, belga, francese o nederlandese che fosse. Simenon fa intensa leva sulla precarietà e la fragilità della serenità della famiglia Popinga, fondata non sull’amore coniugale e filiale, ma sul mestiere del padre, sull’apparire agli occhi del prossimo. Interessante è una considerazione dello stesso Kees, in una delle numerose lettere spedite durante la sua breve latitanza: ammette di essere cresciuto in un ambiente fintamente ricco e sano, in cui la madre, nonostante l’indigenza familiare, metteva pentole sul fuoco per dare l’illusione a eventuali ospiti di star preparando prelibatezze. Questa sostanziosa patina di ipocrisia è probabilmente ciò che ha fatto perdere il senno al protagonista, accumulandosi finché le rivelazioni di Julius de Coster non hanno fatto traboccare il vaso. L’opera di Simenon va quindi a pungere un sistema sociale in cui l’interiorità pian piano di svaluta in confronto all’apparire, rendendo L’uomo che guardava passare i treni un’opera attualissima.

L’intero novero delle azioni di Popinga è quindi una risposta alle strettissime maglie alle quali era stato abituato fin da ragazzo, che poi appunto lo hanno fatto sbottare. L’indagine psicologica di Simenon è molto profonda e permette al lettore di accedere all’inconscio di Kees, manifestatosi con esuberanza da un attimo all’altro. Se infatti la maggior parte di noi non ha gli strumenti e le conoscenze per profilare clinicamente il protagonista, è altresì vero che, in accordo con le teorie freudiane che ho potuto studiare, Popinga è il ritratto della persona nevrotica, le cui reazioni sono estremamente squilibrate rispetto a ciò che la realtà richiede. Familiarizzando con Freud e con la rivoluzione psicanalitica di inizio Novecento, le condotte di Kees non causano più mistero e scandalo, ma quasi compassione.

Una meravigliosa strategia narrativa dell’autore, che ci rammenta anche di non essere in un giallo, è infatti la familiarità con il carnefice, fuoco del romanzo, a differenza del commissario Lucas, che nemmeno è un vero e proprio antagonista, ma una semplice forza avversa, un monito all’ordine. Simenon ci immerge quindi nella realtà di un uomo lucido e presente, determinato ad affondare il ponte che lo collega alla sua vita precedente, quella di padre, marito e impiegato. Popinga si risente terribilmente quando viene inquadrato come paranoico, poiché, a buona ragione, lui è sempre cosciente e volenteroso nel suo agire, criminoso o meno. Popinga ci rivela che il pazzo non è lui, ma chi lo costringe a vivere una vita già impostata a obbedire a canoni e prassi che lui, democraticamente, ricusa nel modo più totale. Il protagonista è certo maligno, dato ciò che ha commesso, ma richiede giustamente di essere trattato come una conseguenza della società in cui vive, non come una sua stortura. Popinga si sente giustamente uno come tutti, e da tale agisce durante il giorno.

L’uomo che guardava passare i treni non è La banalità del male, Simenon non si prefigge l’obiettivo di mettere sotto un riflettore la semplice cattiveria che alberga in ognuno di noi. No, l’autore, con quest’opera più che illuminante, ci ricorda che vivere le vite degli altri è deleterio, ci ricorda che il nostro inconscio, in accordo a studiate teorie psicanalitiche, prima o poi emerge e, siccome siamo umani, può farlo anche in modo assolutamente poco ortodosso. Perché il conscio può forzarsi a seguire un copione, ma l’inconscio ha bisogno di libertà e Kees Popinga non ne ha mai avuta.

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